FESTIVAL MUSICAL DAL 19 AL 26 MARZO ’06 A MILANO
Si terrà a Milano c/o La Rumba (Parco Aquatica, Via G. Airaghi, 61), dal 19 al
26 marzo 2006, la seconda edizione di CANTACUBA, il festival musical della
durata di un’intera settimana, organizzato dalla Compagnia Tropical.
CANTACUBA è un evento di respiro internazionale, nato con l’intenzione di far
conoscere la cultura di Cuba e la sua sorprendente tradizione musicale. Otto le
serate in programma, in ognuna delle quali verrà dato ampio spazio ai diversi
generi musicali e alle varietà del ritmo caraibico. Un festival musical dai
molteplici toni e colori che si uniscono per far cantare un’intera isola, fatta
non solo dai musicisti, ma anche dalla sua gente e da chi la ama.
IL PROGRAMMA
Domenica 19 e lunedì 20 marzo le danze si apriranno al ritmo inconfondibile dei
Van Van, uno dei gruppi più popolari non solo tra i cubani, ma anche tra tutti
gli amanti della musica latinoamericana.
La settimana continuerà con eventi speciali dove rinomati artisti con le loro
peculiarità e doti ci accompagneranno in un viaggio tra i diversi generi che
hanno caratterizzato il pentagramma della musica cubana.
La serata di martedì 21 marzo, sotto il nome di CUBA DENTRO DE UN PIANO, vedrà
come protagonista indiscusso il pianista e compositore José Maria Vitier.
L’artista ci sorprenderà, raccontandoci con il pianoforte, le sue composizioni,
capaci di tradurre in note le emozioni.
Come l’anno scorso, anche questa edizione ritrova MOJITOJAZZ, mercoledì 22
marzo, un excursus nella storia del latin jazz che si unisce ai ritmi più
moderni e contemporanei regalandoci lo spettacolo della musica nella sua
creazione con arrangiamenti ed improvvisazioni di noti jazzisti cubani, come
Rolando Luna, Yussef Dias, Tomas Ramos, Giraldo Piloto Barreto, Dagoberto
Gonzalez, Roberto Riverón.
Giovedì 23 marzo, per la serata dedicata alla MUSICA TRADICIONAL CUBANA, è
previsto un omaggio al grandissimo Compay Segundo. Salvador Repilado, figlio del
noto musicista cubano, ripercorrerà la carriera del padre attraverso i suoi
brani, conosciuti ed apprezzati dal pubblico di tutto il mondo.
Venerdì 24 marzo per CUBA EN ITALIA a salire sul palco sarà Miguel Enriquez y su
salsón, il cantante Cubano che in Italia più ha fatto ballare negli ultimi anni
gli appassionati di musica latinoamericana.
Sabato 25 marzo, si esibiranno Bony & Kelly. Il sogno musicale dei fratelli
Valdivia si realizza, creando un nuovo suono, combinando le loro esperienze
della Timba con un gusto musicale influenzato dal pop latino, las baladas, l’R&B
e l’hip pop… una serata tutta da ballare!
Il festival si concluderà domenica 26 marzo con “el Caballero del son” Adalberto
Alvarez, capace di creare
una perfetta integrazione tra salsa e son, avvicinandosi ai gusti più
contemporanei, che lo rende il sonero più influente degli ultimi 25 anni.
Nel corso dell’intero festival, inoltre, al’ll’interno dell’area concerti verrà
allestita “Comparse”, un interessante reportage fotografico sulla realtà di
Santiago, una delle province orientali di Cuba, del fotografo free lance Aldo
Bianchi.
Le serate avranno inizio alle ore 21.00. Gli spettacoli di domenica 19 e lunedì
20 marzo hanno un costo di € 18. Le restanti serate avranno un costo di 15 €,
inoltre gli eventi da martedì 21 a giovedì 23 marzo comprendono anche un ricco
buffet di specialità cubane.
Per informazioni al pubblico: tel. 02.36.50.52.65 – 340.77.16.990
www.cantacuba.com –
info@cantacuba.com
“Comparse: tra musica e religione”
la mostra, del fotografo Aldo Bianchi, sarà allestita
dal 19 al 26 marzo nell’ambito dell’edizione 2006 di Cantacuba
I focos culturales sono i luoghi dove rimane viva la tradizione della danza di
origine africana e dove si preparano le sfilate del carnevale santiaguero ma
sono anche i luoghi dove si percepisce viva la forza di quelle religioni venute
da lontano, portate nel cuore e nella memoria di milioni di schiavi che per
quattro secoli hanno varcato l’Atlantico.
Questo breve reportage sulla realtà di Santiago, una delle province orientali di
Cuba, è un primo sguardo su questa realtà che merita sicuramente uno studio ben
più approfondito. Infatti, questa è una intima espressione della spiritualità
del popolo cubano, frutto della sua storia, della sua cultura di resistenza e di
liberazione, dimenticarla sarebbe rinnegarne le origini.
Da dove venivano
Con la denominazione di lucumí entrarono a Cuba gli schiavi provenienti
dall’Africa Occidentale. E’ stato dimostrato che il termine lucumí si applicò
tradizionalmente a tutti gli schiavi che provenivano dalla zona Yoruba, compresa
tra l’attuale Benin e la Nigeria occidentale, e venduti sul litorale africano;
col tempo ciò divenne quasi un sigillo di garanzia per la qualità della merce.
Lungo la costa della Guinea, a partire dalla metà del XVI secolo, fecero la loro
apparizione navi e mercanti di una dozzina di nazioni e il commercio degli
schiavi passò attraverso molte mani e molte fasi. Gli stati ed i popoli che
furono coinvolti, più o meno direttamente, erano anche loro diversi per lingua e
per tradizioni. Tra questi gli imperi di Oyo, Benin, Adansi, Ascianti e Dahomey.
Più a oriente, i terreni paludosi del delta del Niger, in principio scarsamente
popolati, divennero in breve tempo il centro di un monopolio commerciale che si
estese sino a raggiungere la regione di Calabar, vicino alla foce del fiume
Cross nell’attuale Nigeria orientale.
Dalle coste del Gabon e del Congo, sin dall’inizio del XVI secolo, ci fu
un’espansione del regno congolese verso est, che portò sui mercati della costa
schiavi di razza bantù, provenienti sia dall’interno sia da regioni più a sud,
come l’Angola.
In questo coacervo di popoli, gli schiavi lucumí furono quelli che ebbero
notevole preponderanza sul suolo cubano esercitando una forte influenza
sull’amalgama sociale dell’isola: ciò non fu dovuto solamente alla loro forza
numerica, ma soprattutto alla raffinatezza della loro cultura, che prevalse
sulle altre, essendone invece influenzata solo per alcuni tratti.
Cabildos e focos culturales
A Cuba gli schiavi continuarono ad arrivare fino agli inizi degli anni Settanta
del XIX secolo. Si stima che, su un milione di schiavi portati a Cuba, circa
ottocentocinquantamila lo furono in quel secolo.
Sebbene le condizioni di vita degli schiavi fossero sicuramente molto dure
ovunque, differivano però tra una piantagione e un’altra. Dove ce ne fu la
possibilità, gli schiavi, fin dai primi anni, si riunirono in piccoli nuclei in
cui si aiutavano a sbrigare le faccende pratiche della vita di tutti i giorni:
dalla nascita di un figlio, alla morte, al culto delle divinità. Queste
istituzioni, alcune delle quali vietate dalla legge, giocarono un ruolo
fondamentale nella conservazione delle tradizioni e furono anche il luogo dove
il materiale culturale e cultuale veniva nascosto; a Cuba presero il nome di
cabildos (dal latino capitulum), mentre i differenti gruppi etnici erano
chiamati naciones.
I cabildos raggruppavano schiavi della stessa nacion e fungevano allo stesso
tempo da società di mutuo soccorso e da luogo di incontro: qui potevano
professare il loro culto ed organizzare la partecipazione alle processioni
cattoliche ufficiali.
Il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, era uno di quei giorni in cui agli schiavi
era concesso di sfilare in processione, da qui probabilmente ebbe origine il
nome di comparsas: potevano uscire in pubblico una volta all’anno, quasi fossero
delle comparse teatrali.
Il governo cominciò a restringere queste attività sin dal 1790 in seguito, nel
1882, divenne obbligatorio, per ogni cabildo, ottenere un permesso da rinnovarsi
di anno in anno e nel 1888, infine, dopo l’abolizione della schiavitù, una legge
proibì la formazione di cabildos di "vecchio stile". Questa pesante ingerenza
nella loro vita ed il pressante intervento legislativo portarono alla scomparsa
di diversi cabildos. Alcuni continuarono ad operare, fuori dalla legge, come
casas de santos, altri si trasformarono in focos culturales.
I tamburi e le danze
Il tratto più importante che caratterizza la provenienza dei tamburi è il
sistema con cui si fissa e si tende la membrana alla cassa: i tamburi fissi
corrispondono ai gruppi bantù; quelli tesi mediante spinotti o tasselli che si
introducono nella cassa indicano la provenienza ararà; infine quelli nei quali
la tensione è data da cunei addossati alla cassa appartengono ai gruppi etnici
originari del Calabar. Anche il modo di percuoterli è differente: con ambe le
mani quelli biconici di origine yoruba, usati nei riti della Santeria, con una
mano ed una corta bacchetta impugnata nell’altra quelli di origine dahomeiana,
usati nel Vodu.
Nelle danze di origine yoruba, in particolare, chi danza adatta i suoi movimenti
e la sua mimica alle espressioni caratteristiche della divinità.
Le stesse sono espresse musicalmente dalla percussione dei tamburi.
Nel caso di Obatalá, ad esempio, chi balla rende omaggio alla divinità signore
di tutto ciò che è bianco, di tutte le teste, di tutti i sentimenti e di tutti i
corpi; della nascita e di tutto quello che sta molto in alto; della bellezza,
della cultura artistica; divinità pura per eccellenza, è lo scultore che ha
creato gli uomini. Balla languidamente e avanza lentamente e melancolicamente,
come se il peso del mondo sopra le sue spalle non la lasciasse muovere; in ogni
movimento sembra che la terra le stia estraendo energia dal corpo.
Yemayá, la madre della vita, regina del mare e delle acque salate; negra, dai
fianchi larghi, astuta, vede tutto e sa tutto. Muove le sue sottane blu e
bianche, insieme a tutto il corpo, fianchi e seno come fossero onde che si
rompono contro la scogliera…
Il fotografo
Aldo Bianchi, nato a Milano, dove vive e lavora, fotografo free lance, ha
collaborato con riviste nel settore del turismo. Dal 1999 lavora ad un progetto
di studio e di documentazione delle religioni afrocubane. In particolare la sua
ricerca l’ha portato nell’orientale provincia di Santiago dove, oltre alle
tradizioni prettamente cubane come la Santeria ed il Palo Monte, sono ancora
vive quelle legate alla fuga degli schiavi haitiani, come il Vodu cubano.
Dal punto di vista artistico è indubbio il riferimento a Henry Cartier-Bresson,
suo ideale maestro, nella ricerca dell’attimo fuggente e nell’utilizzo della
stessa macchina fotografica: la Leica M, sempre con ottiche corte, per una
migliore presenza “all’interno” della scena.
Francisco Rojos
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