Negli anni d’oro della massima contaminazione musicale tra i ritmi sudamericani ed ambienti Jazz nordamericani (nella seconda metà del 1900), il laboratorio sperimentale newyorkese si affida anche ad esperienze quali il diverso utilizzo di vecchi strumenti musicali, oppure la proposizione di nuovi. In questo giardino di sterminata coltivazione, nel quale trova spazio anche il latinjazz, protagonista è stata questa percussione, il vibrafono, tanto da diventarne quasi simbolo di un’epoca gloriosa per gli amanti del “Latin tinge”. In effetti il vibrafono è proprio considerato una percussione in quanto la variabilità dei suoni che emette si ottiene dalla vibrazione degli elementi metallici di cui è composto (alluminio) che vengono percossi da un corpo percussore (bacchetta) fatto di materiale vario (filo, lana o nylon). Ha molte caratteristiche comuni con lo xilofono e con la marimba, che ne rappresentano i precursori in termini di diverse versioni strutturali evolutive. In realtà lo xilofono ha una genesi ed una provenienza asiatica molto antica, costituito da parti di legno, anche cave, disposte in fila e percosse da bacchette. Gli interpreti sfruttavano le diverse frequenze del suono emesse in base al differente corpo dei legnetti. Le versioni africane dello xilofono, costruite utilizzando le strutture legnose cave dei prodotti di coltivazione continentale, già perfettamente integrate nella cultura afro, vennero poi trapiantate in America Latina in seguito alla triste vicenda della deportazione degli schiavi. Nel nuovo continente, si parla di questa percussione utilizzando prevalentemente in termine di marimba. In realtà il vibrafono non è uno strumento assolutamente passivo nel suo funzionamento poiché in effetti è dotato di un piccolo motore elettrico che fa ruotare un sistema di pale rotonde situate al di sotto del complesso dei tubi del risonatore. Queste palette aprono e chiudono alternativamente l’apertura dei tubi e modificano la risonanza del metallo. Nel 1921 un modello all’avanguardia fu prodotto negli Stati Unitidalla Leedy Manufacturing Company, che ne introdusse il sistema a pedale per controllare lo smorzamento o il prolungamento del suono. L’estensione del vibrafono è di solito 3 ottave, sebbene alcuni modelli possano averne 4. Le tessere di metallo possono essere battute da bacchette di diversa consistenza (morbide, semidure, dure, in legno o metallo).
Gli amanti del genere attribuiscono l’arruolamento del vibrafono nella scena jazz a Lionel Hampton, percussionista di Louis Armstrong che lo utilizzò, per le prime volte, nel corso di registrazioni negli anni ’30. Altri musicisti fecero analoga esperienza: Joe Locke, Milt Jackson, Steve Nelson fino a Gary Burton. Quest’ultimo inventò l’utilizzo della doppia bacchetta, con pattens complessi ispirati alla autonomia delle 4 estremità.
Nell’ambito del genere di ispirazione latina il vibrafono acquistò la massima popolarità nei gruppi di musica afroamericana e latinoamericana degli anni ’50 e ’60 a New York. Tra questi possiamo ricordare il maestro Gilberto Miguel Calderón (Joe Cuba) che nel 1955 propose una formazione musicale costituita da sei elementi: timbal (Jimmy Sabater), piano (Nick Jiménez), basso (Jules Lamb), vibrafono (Tommy Berrios), congas (Joe Cuba), voce (Cheo Feliciano). Famosissimo, di questa formazione, fu il brano El Pito. Altro grande nome legato al vibrafono fu il jazzista Cal Tjader che durante la frequentazione del grande Tito Puente, iniziò a dedicarsi al latin jazz con il suo primo album afrojazz del 1955, Ritmo Caliente: si proponeva con una formazione di vibrafono, basso, piano e due percussioni. Tjader in seguito ebbe varie collaborazioni tra le quali l’orchestra di Eddie Palmieri. Di fatto il vibrafono è diventato una vera e propria icona del sound latino degli anni novanta, protagonista nelle orchestre di grandi miti da Tito Puente a Machito, Tito Rodríguez, Cheo Feliciano fino ai New Swing Sextet e tanti altri!
A cura di: Dino Frallicciardi (Que Rico Sonido)
Graphic work by: Francisco Rojos
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