Prima di tuffarci nei mitici Anni 80, autentico periodo d’oro per la musica da ballo nelle discoteche, vediamo di approfondire l’argomento della fine della Discomusic, di cui abbiamo dato alcuni accenni nelle precedenti puntate di questa nostra rubrica. Se in Europa il passaggio dalla Discomusic alla Dance è avvenuto come un’evoluzione naturale del genere, negli Stati Uniti la sua fine è legata ad una data precisa e ad un evento che ne ha decretato l’effettiva “condanna a morte”. Oggi noi possiamo vedere sui vari blog e social network il sorgere di gruppi contro alcuni artisti o generi musicali; i motivi per cui un cantante, un gruppo o un certo tipo di musica non piacciono sono svariati, chi dice la sua a volte lo fa anche in maniera pesante ed incivile, ma il tutto si limita all’interno dello spazio che si ha a disposizione nei commenti oppure alla constatazione che a “odiare” il personaggio o il genere in questione ci sia almeno altrettanta gente di quanta lo ami, se non addirittura di più. Tutto questo non ha niente a che vedere con ciò cha accadde nei confronti della Discomusic: sul finire degli Anni 70, infatti, partì negli States una vera e propria crociata anti-Disco, che avremo modo di conoscere ed analizzare nella puntata odierna. E’ un argomento piuttosto interessante e pochi ne parlano; per trovare notizie in proposito abbiamo dovuto compiere un’accurata ricerca sul web, ecco cosa abbiamo trovato in proposito.

LA DISCOMUSIC COME FENOMENO DI COSTUME – Fino ad ora abbiamo parlato della Discomusic in termini tecnici e musicali, presentando i suoi maggiori esponenti e dando il giusto merito anche a personaggi che di solito hanno lavorato dietro le quinte per portarla al successo, come produttori, discografici, dee-jays radiofonici; abbiamo visto le innovazioni che portato nell’ambito dell’intrattenimento, con nuovi modi di concepire il ballo e soprattutto con la nascita della figura del disc-jockey, dapprima come protagonista centrale di una serata nei club, poi come consulente, produttore e creatore di brani in sala di registrazione. Per comprendere cos’abbia scatenato l’ira di molte persone nei confronti di questo genere, però, dobbiamo vedere anche cos’abbia rappresentato la musica Disco nel tessuto sociale americano di quegli anni. Nei primi anni Settanta, quasi in contemporanea con la nascita del nuovo genere musicale, iniziavano a sorgere a New York i primi club riservati agli omosessuali: il Sanctuary, aperto nel 1970, era certamente il più famoso: qui si alternavano alla consol i dee-jays Francis Grasso, Steve D’Acquisto e Michael Cappello. Sempre in quel periodo aprirono i battenti anche l’Ice Town, in pieno centro a Manhattan, così come altri locali concentrati nella zona di Fire Island, spiaggia già da tempo frequentata dai gay ed immortalata nella canzone di Paul Jabara dal titolo Pleasure Island. A dare un forte contributo al proliferare di questi Clubs fu anche la vicenda dello Stonewall, uno dei primissimi ritrovi per omosessuali, situato nel Greenwich Village: fu infatti proprio da lì che nel 1969 partirono le prime manifestazioni per il movimento gay, e fu proprio davanti a questo locale che i suoi avventori si ribellarono ai poliziotti, responsabili di violente retate nei loro confronti, autorizzate da una legge discriminatoria e, visti i tempi, ormai anacronistica.

I media diedero grande risalto a questa rivolta e improvvisamente l’opinione pubblica si ammorbidì nei confronti degli omosessuali, che poterono così da quel momento in avanti dar sfogo alla loro mentalità edonistica, che li accompagnò per tutto il decennio successivo. Ottenuto quindi il diritto di poter ballare tra persone dello stesso sesso in atteggiamento intimo senza doversi più preoccupare dell’intervento della polizia, il terreno per l’avvento e l’esplosione della Discomusic era pronto e spianato. E’ stata quindi la comunità gay newyorchese a sdoganare il nuovo genere nei Club: finiti gli anni bui della contestazione giovanile, della guerra in Vietnam, stava arrivando un nuovo periodo all’insegna della voglia di divertirsi in maniera spensierata, di sentirsi sempre giovani, di fare sesso liberamente e di sperimentare nuove droghe. All’inizio il fenomeno non era di grande portata, ma piuttosto di nicchia, quindi veniva tollerato o tutt’al più guardato con un certo distacco. I problemi cominciarono a nascere quando anche le donne, gli eterosessuali ed i bianchi iniziarono a frequentare questi locali: questo nuovo tipo di club e di musica, infatti, ci mise ben poco a far tendenza e ad uscire dal proprio ambito; per prima cosa i locali etero iniziarono ad invitare gli omosessuali e più era prestigioso il club, più erano disposti a pagare questi ospiti. Ma erano ancora i locali per gay a dettar legge: inizialmente venivano ammesse le loro amiche, poi le modelle e le attricette in cerca di visibilità, cosa che ineluttabilmente finì per attirare l’attenzione dei maschi eterosessuali, i quali, sotto la copertura della moda glam, cominciarono a travestirsi da gay per potervi accedere. Dopo i primi contrasti, si arrivò ad un equilibrio tale e ad una reciproca tolleranza che permise sia ai locali di prosperare, sia alla musica di fare il boom in ogni classifica; non va dimenticato, infatti, che l’altra componente che rendeva unici questi posti era proprio la musica, ed il modo in cui i dee-jays la proponevano. Quello che era iniziato quindi come movimento dei neri, dei latini e degli omosessuali, si estese quindi al mondo dei bianchi e degli etero, grazie anche all’uscita nelle sale di Saturday Night Fever e della sua colonna sonora, che annoverava il primo gruppo composto interamente da bianchi a cantare Discomusic, i Bee Gees. Un fenomeno di tale portata iniziò a preoccupare non solo i conservatori ed i benpensanti, ma anche i seguaci degli altri generi musicali, i quali, sentendo minacciato il loro primato e la loro importanza, iniziarono ad organizzarsi e a dichiarare apertamente guerra a questo nuovo modo di intendere la musica, la vita ed il divertimento.

IL MOVIMENTO DISCO SUCKS E LA DISCO DEMOLITION NIGHT – Alla fine degli anni Settanta, quindi, assistiamo negli Stati Uniti, alla coalizione di tutti i fan di generi quali il rock, il country, il blues, contro la Discomusic, al grido di “Disco Sucks” ( si può tradurre con “La disco fa schifo“, anche se sucks è decisamente un termine più volgare). Le accuse erano rivolte alla musica, descritta come una “bella donna senza cervello”, o come “preconfezionata”, e ai testi delle canzoni, ricchi di espliciti riferimenti all’universo omosessuale; in realtà non era la musica il vero nemico da colpire, ma lo stile di vita di cui era messaggera: il machismo tipico del rock aveva ricevuto un duro colpo dall’edonismo della Disco, e in qualche modo si doveva pur rifare. Finché il fenomeno era confinato negli ambienti omosessuali ed afroamericani, nulla da dire, ma non appena era stato abbracciato anche dai bianchi la cosiddetta “American way of life” si è sentita minacciata ed ha iniziato a reagire. Sorsero così in tutta la nazione gruppi spontanei o aizzati dalle radio e dalle tv, si organizzarono stampando magliette e dando vita a veri e propri eventi, come i ritrovi per bruciare i poster dei Bee-Gees ed i loro dischi. Artisti provenienti dal mondo del Rock come David Bowie, Rod Stewart ed i Rolling Stones, che avevano inserito ritmiche Disco in alcuni loro brani, vennero accusati di essersi venduti. Il momento topico di questa protesta arrivò il 12 Luglio del 1979 a Chicago, con un evento che tutti conoscono come la “Disco Demolition Night“.

Lo organizzarono i due dee-jays radiofonici Steve Dahl e Garry Meier, aiutati logisticamente da Michael Veeck, figlio del proprietario della squadra locale di baseball dei Chicago White Sox. Sensibilizzate da una massiccia campagna pubblicitaria alla radio da parte di Dahl e Meier, novantamila persone entrarono in tutti i modi possibili nello stadio di Cominskey Park di Chicago, che ne poteva contenere solo cinquantaquattromila, e all’intervallo della partita tra i White Sox ed i Detroit Tigers, trentamila di esse si riversarono sul campo di gioco e fecero saltare in aria qualcosa come centomila album di Discomusic; chi era rimasto bloccato sugli spalti lanciava i dischi a chi di dovere a mo’ di freesbee. Tra i primi e più esagitati ad invadere il campo ci fu l’allora ventunenne Michael Clarke Duncan, l’attore diventato famoso interpretando il commovente ruolo di John Coffe ne “Il Miglio Verde“. Naturalmente l’incontro di baseball fu sospeso e la vittoria venne assegnata a tavolino alla squadra ospite.

Ancor oggi quella data viene ricordata come “The night when Disco died” (La notte in cui morì la Discomusic) e ricorda molto da vicino, anche se in modo meno grave, la notte della Kulturkampf, quando i nazisti bruciarono i libri e le opere culturali pericolose per la loro ideologia. L’episodio ebbe una grande eco da parte dei media ed un forte impatto sull’opinione pubblica, ma, quel che più contava per i suoi promotori, colpì nel segno: se infatti il 21 Luglio di quell’anno le classifiche di vendita vedevano sei brani Disco nelle prime sei posizioni, appena due mesi dopo, il 22 Settembre, non c’era più nessun brano Disco nelle prime dieci posizioni. Questo fece decretare la fine della Discomusic ed il ritorno del Rock. Le canzoni Disco sparirono quasi all’improvviso dalle classifiche, molte etichette indipendenti dovettero vendere o chiudere per bancarotta e molti artisti conobbero un periodo buio della loro carriera, dal quale non tutti seppero riprendersi. Persino John Travolta dovette riciclarsi nel ruolo di fan del country e dei rodei al toro meccanico in “Urban Cowboy”, per far temporaneamente dimenticare il suo Tony Manero. Proprio nell’autunno di quell’anno un brano rock tornò al nr.1 nelle classifiche di vendita ed i suoi interpreti venivano presentati come i “nuovi Beatles“: si trattava di My Sharona degli Knack, che nel giro di qualche mese tornarono nel dimenticatoio.
UNA VITTORIA SOLO TEMPORANEA – la scoperta del virus dell’HIV e dell’AIDS verso la metà degli anni 80 fu poi un altro punto segnato a favore dei fautori del movimento Disco Sucks, che piuttosto meschinamente cavalcarono l’onda emotiva di questa malattia per far notare come quel modo di vivere la vita avesse ridotto i protagonisti di quelle notti degli anni Settanta.
Se però tutte queste persone fossero convinte di aver seppellito definitivamente la Discomusic, beh, si sbagliavano di grosso. E’ vero, la Disco sparì dalle scene come genere, ma influenzò il mondo del rock e del pop, tanto negli Usa quanto in Europa, alcuni locali storici chiusero, ma altri aprirono e nelle discoteche si continuava a ballare, in alcune di esse ancora a trasgredire. Sulle ceneri della Disco nacquero nuovi artisti, altri si seppero evolvere o riciclare, e il fatto che siamo ancora qui a parlarne oggi con grande nostalgia e che molti producers ne usino riffs e campionature per i brani odierni la dice lunga su quanto l’eco di questo genere sia ancora vivo e vegeto più che mai. In più, la diffusione della Disco in Europa fu la dimostrazione che l’intolleranza dei paladini della Disco Sucks era rivolta più alo stile di vita che alla musica in sé: nel nostro continente, infatti, la Disco prese piede più come genere musicale che come fenomeno sociale: avendo poi come riferimento il film Saturday Night Fever, i giovani europei hanno sempre visto questo genere aperto a tutte le razze e tendenze sessuali, mentre le scene di scontro razziale, come la famosa scazzottata tra italoamericani e portoricani, venivano viste più che altro come una prerogativa del tutto newyorchese. Non mancarono nemmeno in Europa gli osteggiatori della Disco, primi tra tutti gli alfieri della cultura Punk, ma non si raggiunsero mai le vette americane, proprio perché in questo caso era la musica in discussione e non le implicazioni sociali. Questo spiega perchè, una volta che la Discomusic scomparve dalle scene Americane, in Europa più che sparire del tutto si trasformò in Dance, grazie come abbiamo visto, alla bravura e alla sperimentazione di artisti come Moroder, Cerrone e via dicendo.

E non sia mai che chiudiamo questa parentesi piuttosto triste ed oscurantista senza un po’ di musica e di colore. Visto l’argomento che abbiamo trattato oggi, celebriamo e riascoltiamo i successi di quelle che sono forse le due icone gay più famose degli anni 70, ovvero i Village People e Sylvester.

LA “GENTE DEL VILLAGE” – I Village People nascono da un’idea del compositore e produttore di origine francese Jacques Morali e dal suo sodalizio con il suo socio Henry Belolo. Colpiti dalle doti canore e di performer di Victor Willis, decidono di costruirgli attorno un gruppo, che chiamano “Village People” perchè provenienti dall’ambiente del Greenwich Village, oggi elegante quartiere di New York, allora noto luogo molto frequentato dalla comunità gay. Dal punto di vista del look si rivela molto azzeccata l’idea di mandare in scena i sei componenti del gruppo vestiti come gli archetipi dell’immaginario gay: abbiamo quindi il poliziotto (Victor Willis, e dal 1979 Ray Simpson), l’operaio (David Hodo), l’indiano (Felipe Rose), il biker (Glenn Hughes, e dal 1995 Eric Anzalone), il soldato (Alex Briley) e infine il cowboy (Randy Jones, e dal 1980 Jeff Olson). Il loro primo album risale all’anno della loro fondazione, il 1977, e si fa subito strada nel mondo della disco con i singoli San Francisco e Village People. Le loro prime esibizioni live avevano come teatro la discoteca Odissey 2001, resa famosa proprio da lì a poco dal film Saturday Night Fever. La loro Disco è quella tipica newyorchese, e risente molto nelle percussioni delle influenze latine. Il 1978, com’è avvenuto per molti dei loro colleghi, è l’anno del boom: escono infatti due singoli che hanno fatto la storia di questo genere, ovvero Macho Man e quello che è diventato un vero e proprio inno alla Discomusic, un sempreverde che a distanza di quasi cinquant’ anni è ancora oggi un must nelle feste e nei balli di gruppo, YMCA: la canzone è una presa in giro agli ostelli della Young Men’s Christian Association (Associazione dei giovani cristiani), in quanto essi avevano delle palestre annesse frequentate da omosessuali a caccia di avventure; da qui le allusioni sottili nel testo (l’omosessualità nei testi dei Village People non viene mai descritta in maniera esplicita, ma sempre attraverso allusioni e doppi sensi). Il 1979 è l’anno della consacrazione e va ricordato per altre due pietre miliari della loro produzione: Go West, di cui i Pet Shop Boys negli anni 90 hanno fatto una bellissima cover, cantata poi da parecchie tifoserie in molti stadi di calcio europei, e In the Navy, il cui video è ambientato su un incrociatore della marina americana e di cui i Muppets hanno fatto una spassosissima parodia. Vengono anch’essi travolti dal movimento Disco Sucks, ma riescono a rinnovare la loro musica e a piazzare un altra grande hit, molto innovativa dal punto di vista musicale, nel 1981, Five o’clock in the Morning. Il loro ultimo singolo inedito risale al 1985, si intitola Sex Over the Phone, e risente molto delle influenze dance tipiche di quegli anni. Dopo un periodo di silenzio, nemmeno loro si sono sottratti all’operazione nostalgia, ed hanno iniziato così ad editare raccolte e a girare per il mondo in turneé, smentendo le voci di chi attribuiva la loro assenza dalle scene alla morte per AIDS di alcuni loro componenti.
IL RE DEL FALSETTO – Chi invece morì veramente a causa del virus HIV nel 1988 fu Sylvester, altro grande della Discomusic. Sylvester James, questo il suo nome per esteso, inizia la sua fortunata carriera musicale nel gruppo dei The Cockettes, per poi intraprendere il percorso da solista, usando come nome d’arte il suo semplice nome di battesimo. Negli anni della disco si è ritagliato il suo posto nell’Olimpo con la hit planetaria You Make Me feel (Mighty Real), e con altri singoli di minor impatto, ma sempre si successo, quali Dance (Disco Heat), I Who I Have Nothing e Stars. Nelle sue esibizioni live lo accompagnano come coriste le Two Tons of Fun. La sua voce in falsetto è una delle più belle e caratteristiche del mondo della Disco, tanto che negli anni Novanta, un altro interprete che eccelle in questo stile particolare di canto, fa una cover della sua You Make Me Feel, ottenendo in Inghilterra un successo di vendite addirittura maggiore di quello dell’originale. Il cantante in questione è Jimmy Sommerville, al suo debutto da solista dopo aver abbandonato i Bronsky Beat. Negli anni 80 Sylvester si affida al produttore e compositore Patrick Cowley, che rinnova il suo stile musicale e gli produce nel 1982 Do You Wanna Funk, che rimane però anche l’ultimo singolo dell’interprete californiano, in quanto Cowley morirà dopo pochi mesi per AIDS, la medesima sorte che capiterà a Sylvester sei anni più tardi.
E per finire, ecco la playlist Spotify con tutti i brani di cui vi abbiamo appena parlato: buon ascolto!
A cura di: Mauro Gresolmi
Images & Graphic work by: Francisco Rojos
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