Fin dal primo brano si capisce che siamo di fronte ad un gruppo coeso, compatto, affiatato che risponde con precisione ai movimenti della bacchetta del direttore. Lui, il bandleader, è il compositore e vocalist Willie Martinez alla testa de La Familia Sextet con la quale ha appena pubblicato l’interessante album “After Winter, Spring” (Cuch be Witcha productions, 2008). Al termine dell’ultima traccia che arriva dopo 55 minuti è spontaneo capire chi sono gli illustri sconosciuti di questa brillante famiglia musicale, che con molta eleganza riescono ad accompagnarvi con swing nelle più variegate espressioni del jazz afrolatino. E subito dopo aver sfogliato le note biografiche del pianista Misha Tsiganov o del sassofonista Max Schweiger vi renderete conto che l’iniziale stupore per quell’insolito e delicato sound era legittimo. L’album – che è una sapiente alchimia ritmico-armonica – nasce infatti dall’etereogeneità culturale dei membri intervenuti (dagli Usa alla Russia all’Austria) e dal notevole pedigree di alcuni musicisti cresciuti alla corte di artisti come Chico O’Farrill, Clark Terry, Mario Bauzá, Paquito D’Rivera ecc. Tutti strumentisti talentuosi; ottimo il binomio e il fraseggio di trombone e sax baritono, ma su tutti spicca Willie Martinez per l’abilità nel ruolo di ‘capofamiglia’ e per le doti di arrangiatore, compositore, percussionista e di vocalist. Meritevole di segnalazione quest’ultima veste di Martinez che ha saputo interpretare e trattare creativamente materiali e sound di diversa provenienza, plasmando i colori dei Caraibi, del Brasile, le tonalità del microcosmo jazzistico di New York e quelle della canzone pop americana anni Sessanta (“Sunny”, grande successo di Bobby Hebb rifatto poi in tantissime versioni).
Quindi un cd che trae alimento, freschezza e spirito in gran parte dalle culture musicali dell’intero continente americano e che prende forma attraverso un’armoniosa pronuncia del latin jazz che forse attrae anche coloro che non amano troppo la frenesia di certi moduli ritmici. Consiglio finale: un album da infilare in ogni discoteca di jazz afrolatino ma anche tra quelle di jazz contemporaneo.
GianFranco Grilli
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