Jacob Edgar: dalla salsa alla Cumbancha

Jacob Edgar: dalla salsa alla Cumbancha

Una carriera da ricercatore musicale iniziata alla Putumayo World Music. Nel 2005 il debutto come discografico con la nuova etichetta Cumbancha. L’abbiamo raggiunto telefonicamente tra le nevi del Vermont (Usa). Ci ha raccontato le sue origini hippy, l’inizio salsero, l’esperienza cubana, la figura di Andy Palacio (scomparso recentemente), il progetto culturale francescano “pace, amore e biodiversitá”, e alcuni numeri.
 

Questo servizio è la rielaborazione dell’intervista pubblicata da Gian Franco Grilli sul mensile JAM – Viaggio nella musica, marzo 2008. Ringraziamo Jam, pubblicazione edita dalla Cooperativa Giornalisti Seven Arts, per averci consentito l’utilizzo e la diffusione del materiale raccolto.

Jacob Edgar risponde in spagnolo con accento caraibico quasi a voler dimenticare per un attimo la neve e il freddo che per molti mesi dell’anno avvolgono gli studi della sua casa discografica che ha fondato nel 2005 con un nome cubano: Cumbancha. “Un termine tipico che a Cuba significa parranda, festa, divertimento, cantare e celebrare la vita – esordisce Jacob – e l’ho scelto perché mi piace la bellezza creola di questo vocabolo che comunque ha origini africane mescolate allo spagnolo e gli incroci mi affascinano, soprattutto nella musica. Ma il nome non è legato geograficamente alle produzioni di un’area specifica. Mi occupo di musiche del mondo”.
Cumbancha è l’ultima tappa del variegato percorso artistico di Jacob Edgar, etnomusicologo, musicista, talent scout, discografico. Un cammino iniziato da qualche lustro, esattamente quando?
“Estremizzando – continua Jacob – si può dire che è partito dalla culla, ovvero nel 1969 a San Francisco. Città dove sono nato e cresciuto con i miei genitori che erano artisti hippy e lì ho iniziato ad ascoltare tanti stili musicali: reggae, africana, blues rock, i gruppi di Woodstock, Santana. Così si è via via alimentata la mia passione per la musica”.

A dieci anni Jacob inizia gli studi con tromba e chitarra, e crescendo si distacca dalle sonoritá degli States e rivolge lo sguardo alle musiche del mondo, subendo i richiami delle culture afrocaraibiche. “Come trombettista incominciai a suonare con gruppi di salsa e latin jazz; allo stesso tempo mi appassionavo sempre più ai collegamenti tra musica e storia, all’antropologia musicale, materie che studiavo al College e poi all’UCLA, l’Università California di Los Angeles, dove c’è uno dei più importanti corsi di etnomusicologia. Lì ho approfondito musica cubana, portoricana, africana e quelle folkloriche e rituali di differenti paesi. Mi sono laureato nel 1994, ho un Master in etnomusicologia e notevoli esperienze di viaggio”. Già un bel traguardo per un giovane, ma evidentemente la carriera universitaria non era iscritta nel suo dna, che invece ha ben incisi lo spirito creativo e il senso dell’avventura ereditati dai genitori e dall’ambiente californiano. “A un certo punto lasciai la parte accademica, il mondo teorico, poco dinamico e decisi per il lato pratico della musica. Così a San Francisco cominciai a lavorare presso un distributore musicale, poi diventai direttore di una piccola label, Tinder Records, sempre in ambiente world music, artisti africani, brasiliani, francesi”.
Poi l’anno di svolta per Jacob: il 1998, quando Dan Storper, presidente della Putumayo World Music, gli affida un ruolo importante. “Essendo Putumayo una etichetta specializzata nella realizzazione di compilation di musica internazionale, ebbi l’incarico di curare quei progetti. Quindi da quel momento iniziai a viaggiare nel mondo intero alla ricerca di canzoni giuste da inserire nelle compilation del nostro catalogo. Questo mi ha permesso di conoscere molti produttori, discografici e artisti eccellenti di tutti i continenti e ho acquisito esperienze importantissime. Però Putumayo, come ho detto, si dedica quasi esclusivamente alle compilation ed io sentivo il desiderio di produrre artisti, un processo differente e completo per aiutarli a sviluppare e a valorizzare la loro carriera a livello internazionale. Di qui l’idea di avere un mio marchio discografico, informai Dan Storper della mia iniziativa discografica, l’ approvò e con sorpresa mi offrì aiuti”. Nessun strappo ombelicale ma addirittura contributi e una partnership più forte. “Sì, nel senso che i prodotti Cumbancha sono distribuiti da Putumayo, che ha una rete internazionale capillare. Finora abbiamo prodotto 7 dischi, ne usciranno 3 nei prossimi mesi. La nostra è una situazione in salita e Cumbancha vende, in media, circa 50.000 copie di ogni album. Continuo, comunque, a svolgere ricerche musicali con il ruolo di direttore artistico per Putumayo. Il nostro è un rapporto straordinario, non c’è concorrenza bensì è complementare: molti artisti di Cumbancha fanno parte delle compilation Putumayo e questo rafforza l’obiettivo comune, cioè aumentare il pubblico della world music, un mercato che offre ancora opportunità”.

Come referente della Putumayo, quando gli chiedo di raccontarmi dell’organizzazione e di alcuni numeri della casa newyorchese, non esita un istante e dice: “La sede centrale è a New York, dove lavorano circa 60 persone, poi abbiamo uffici a Parigi, Londra e Olanda ecc., in totale uno staff di 150 collaboratori. Nei miei dieci anni di collaborazione ho curato più di 100 compilation, quest’anno è il quindicesimo compleanno di Putumayo che celebreremo ora con due nuove compilation: ‘African Dreamland’ e ‘African Party’, che contiene anche un brano di Kotoja, il gruppo africano che ispiró Dan Storper a fondare l’etichetta. Numeri sulle vendite? Putumayo ha una distribuzione diversa da quella delle major, oltre ai negozi di dischi arriva nelle librerie e in realtà commerciali dove normalmente non si vendono prodotti musicali. Una compilation normale in media vende tra le 100.000 e 400.000 copie. Cosa importante di Putumayo: una parte dei guadagni li versa a organizzazioni benefiche per sviluppare la cultura e il territorio di specifiche comunità. Ogni disco è vincolato a un progetto seguito da Ong e il buon fine di queste operazioni si puó consultare sul sito www.putumayo.com”.
La compilation top? “Quella dedicata alla musica popolare di Cuba uscita nel 2000” .
Sulla scia del successo di Buena Vista Social Club, non ritieni fosse un risultato abbastanza prevedibile? “Non era scontato. Ma a parte questo, io sono molto contento del successo ottenuto da Buena Vista Social Club perché è sempre una opportunità per la gente di scoprire qualcosa di significativo, collegato a storia e cultura, e questo significa che esiste grande interesse verso le musiche del mondo”.
Ma non credi ai rischi per le musiche popolari quando entra in campo il grande business, come è stato il caso di Ry Cooder con Buena Vista?
“Si è vero, si è dibattuto molto su questo aspetto. D’altra parte i progetti sulle musiche del mondo per affermarsi a livelli internazionali devono essere sostenuti da artisti molto noti, come ad esempio Cooder, ma ricordiamoci anche di altri nomi impegnati in iniziative particolari come Paul Simon con ‘Graceland’, Ladysmith Black Mambazo, Peter Gabriel, David Byrne con la musica brasiliana” .

Parola di giovane discografico, con i piedi per terra, ispirato da princípi e valori di francescanesimo moderno, peace, love e biodiversità. Jacob è convinto, in controtendenza rispetto alle major, delle sue scelte artistico-musicali che puntano al traguardo partendo non dal marketing ma dalle tradizioni culturali. “La mission di Cumbancha – sottolinea con orgoglio Jacob – è di contribuire a rompere certe barriere e di far conoscere al mondo linguaggi musicali autoctoni, lavorare per difenderli e rispettare le diversità”.
E ti rivolgi ad un’area culturale specifica? “Non ho un zona predefinita, anche se preferisco le connessioni storiche con la musica africana, ad esempio Cuba, Brasile, ecc. Di qui è nato il progetto sul Belize, che curo con il musicista-produttore beliziano Ivan Duran, per valorizzare la musica dell’etnia Garifuna, quella del grande artista Andy Palacio. Ma il valore aggiunto del progetto non è tanto sull’aspetto musicale quanto sullo sviluppo e la conservazione culturale. Watina, il disco di Andy Palacio & The Garifuna Collective, ha vinto il prestigioso Womex Award 2007 e il BBC Radio 3 Awards 2008 per world music e questi successi hanno creato nel Paese centroamericano un movimento per far rivivere la cultura Garifuna: lo stesso Governo, fino a quel momento un po’ latitante, ora presta maggior appoggio a questa minoranza etnica di cui pubblicheremo in aprile un nuovo disco, tutto femminile, cantato in lingua garifuna: Umalali, Song Garifuna Womens, un cd con contenuti speciali – video e interviste – dove intervengono settanta artisti, tra musicisti e cantanti”.

Puoi ricordarci la figura del cantante-chitarrista Andy Palacio scomparso prematuramente in gennaio?
“Andy iniziò la sua carriera suonando punta rock, stile commerciale basato su ritmo tradizionale garifuna con influenze di soca, zouk, musica cubana, rock, reggae, ecc. Poi ultimamente con ‘Watina’ è tornato alle radici, esplorando l’anima della cultura Garifuna. Un progetto innovatore, cantato in idioma garifuna, una ‘mezcla’ nata dall’incrocio di africani e indios caraibici. Niente di simile era mai stato fatto prima, ha avuto un riscontro speciale. Andy, che lascia moglie e cinque figli, era la massima autorità musicale della Comunità, ora alla ricerca di un nuovo leader”.

Qualcuno in vista?
“Andy era un mix molto speciale di talento musicale, culturale e professionale, con grandi doti comunicative. E’ ancora presto per dirlo, tuttavia ci sono molti musicisti talentuosi della nuova generazione che hanno collaborato al disco, da Aurelio Martinez dell’Honduras, poi il giovane Adrian Martinez (che canta il brano Baba in ‘ Watina’). E Andy insegnava molto per creare discepoli”.

E ora come continueranno le tournée?
“Come forme di tributo a Andy, con concerti internazionali del Collective Garifuna, per l’occasione composto da 14 persone, tra cui alcune cantanti del progetto Umalali e invitando nuovi musicisti che hanno suonato nel disco. Una sorta di celebrazione di tutta la musica garifuna”.

Oltre il progetto garifuna, quali sono gli altri artisti prodotti?
“Il chitarrista-cantante Habib Koité del Mali; il compositore-tastierista israeliano Idan Raichel, rockstar nel suo paese che miscela musiche, lingue e strumenti delle comunità etiopica, yemenita, araba; e poi il primo gruppo prodotto: Ska Cubano, una band che fonde ska, son, conga, mambo, cumbia, mento”.

E allora possiamo parlare di Cuba? La compilation di maggior successo per Putumayo è stata ‘Cuba’, poi il nome della tua label si ispira alla cultura dell’Isla, da cui viene in gran parte il progetto d’esordio con Ska Cubano. Ci racconti quando sei stato nell’isola caraibica, come hai superato l’embargo, qual è la tua opinione sui musicisti cubani?
“Ci sono andato due volte, nel 2000 e 2002, entrando attraverso un terzo paese, il Messico, come sono costretti a fare tutti gli statunitensi. Partendo dall’Avana ho fatto una ricerca musicale anche se non in maniera ufficiale per Putumayo. Il livello musicale dei cubani? è veramente molto alto”.

Secondo te la Rivoluzione ha ridato un’identità nazionale alla musica, ne ha curato di più la qualità oppure…
“A me sembra che Cuba abbia avuto sempre grande musica; è vero, ci sono stati esempi di musica più commerciale negli Cinquanta, ma, tanto per fare un nome, c’era anche Benny Moré. E’ un paese con una grande varietà sonora. Io non credo che la situazione politica influisca più di tanto, perché sono convinto che i cubani la musica ce l’hanno nel sangue e nel cuore, dalla rumba alla salsa”.

Salsa, la musica di cui ti sei innamorato prestissimo. Parlaci brevemente della tua esperienza, delle tue preferenze, se balli ….
“Mi piace la salsa dura, quella degli anni Settanta. Ci sono molti gruppi di questa tradizione che ammiro, ma ce ne sono altri più commerciali che per me sono meno interessanti. Poi mi incuriosiscono anche rap, hip hop latino. Qui nel Vermont si suona salsa e ci sono tanti salseros che ballano. Certamente che ballo salsa, ma come un gringo (ride!)”.

Dalla pista facciamo un passo indietro, quando eri sul palco e suonavi la tromba nell’orchestra di salsa. A chi ti ispiravi?
“Soprattutto al grande Chocolate Armenteros, alla sua tromba tipica cubana, allo stile del son montuno, ma seguivo anche altri artisti perchè facevo parte di gruppi che suonavano danzon; quindi charangas un po’ atipiche, con ottoni, ance, metales, anziché il formato classico della charanga con violino e flauto”.

Quali sono i tuoi artisti preferiti della musica latinoamericana ?
“Spanish Harlem Orchestra, poi orchestre di salseros colombiani. Un nome molto interessante tra i cubani è Habana Abierta. E, forse, ti sorprendo dicendo che l’ultimo lavoro di Gloria Estefan è splendido, mi è piaciuta l’intenzione del progetto: esplorare le radici.”

Concludendo, hai artisti italiani in vista da produrre? E, in generale, chi sono quelli di tuo gradimento?
“Nessuna produzione al momento. Mi piacciono: Lucilla Galeazzi, Enzo Avitabile e altri, tra cui Lorenzo Jovanotti”. Divertente, in linea con l’anima Cumbancha.

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