El Malon torna a perlustrare le tradizioni culturali rioplatensi con un nuovo album. In questo articolo-intervista, il pianista-cantautore argentino-parigino ci racconta la sua vita tra tango, jazz, latinrock e arte. Ne esce anche un breve ripasso di storia e la conferma che il tango viene dal tamburo africano.
di Gian Franco Grilli
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El Malon è vivo più che mai. Ritorna e si rinnova. A settantadue anni di età – dopo mezzo secolo di carriera con una decina d’album all’attivo – continua a sorprendere con progetti musicali innovativi che negli ultimi tempi realizza al timone del Tango Negro Trio. Da qui il recentissimo cd
La Vuelta del Malon (Felmay – distr. Egea), ultima tappa del lungo percorso del condottiero
Juan Carlos Cáceres (‘Malon‘), pianista, cantautore, compositore, etnomusicologo e pittore. Un cammino variegatissimo intrapreso da Juan Carlos nella natía Buenos Aires da diversi lustri, precisamente quando? “Erano gli anni della guerra, avevo 8 anni quando iniziai gli studi di tipo accademico con il pianoforte e dopo 6 anni continuai da autodidatta. Ero un giovanotto quando formai la mia prima orchestra di tango”. L’avvento della moda della musica europea e dell’esistenzialismo spingono il giovane pianista ad ampliare le proprie competenze strumentali imparando a suonare il trombone così da poter integrare al tango un repertorio di jazz tradizionale, il dixieland revival di New Orleans. Il polistrumentista nel frattempo si esercita anche nell’arte della composizione e inizia a firmare brani.
“Ho cominciato a comporre molto presto e il pezzo d’esordio è un samba intitolato ‘Samba de la mirada’. Negli anni Sessanta ho firmato musiche per film, temi di jazz, alcune opere sono inedite, ma il lavoro compositivo più consistente lo sviluppai in Europa”.
Figura unica nel tango d’autore, uno stile inconfondibile, con una pronuncia musicale del tutto personale, come cantautore e interprete Cáceres richiama alla mente, anche se lievemente, il tipico chansonnier francese, l’intreccio di canto-poesia-teatro degli storici bistrots di Saint-Germain-dès-Prés. Quando gli chiedo se ci sono queste influenze, precisa:
“Forse qualche traccia del canto francese c’è, ma i miei modelli più importanti derivano da cantanti latini, e in particolare argentini, che sono tanti e straordinari, ma purtroppo in Europa non si conoscono”.
Personaggio atipico, una verve e una grinta da far invidia ad un ventenne, Cáceres della gioventù conserva lo spirito ribelle e anarchico, quello spirito libertario e di conquista che lo animavano e lo spinsero a varcare l’Oceano per trasferirsi in Europa, lasciandosi alle spalle l’America Latina in subbuglio.
“Era il periodo del primo governo militare del Generale Carlos Onganía – insediatosi circa due anni prima, nel 1966 – che governò in modo autoritario ma non come la dittatura degli anni successivi. E questo avveniva in un contesto continentale latinoamericano sotto il potere dei militare. Quindi da un ambiente come quello argentino arrivai nella capitale francese nel bel mezzo dell’epico Maggio: era il 14 maggio del ‘68 tra lotte, scioperi, occupazioni di università e fabbriche, cortei di lavoratori, scontri tra studenti e polizia. Insomma, una città in pieno scompiglio”.
Ma i motivi che stavano alla base di questa fuga dall’Argentina del giovane Juan Carlos erano essenzialmente di tipo artistico.“Mi chiamarono come polistrumentista – continua Cáceres – per accompagnare Marie Laforet, un’attrice e cantante francese di quell’epoca (interpretava il brano La Playa, che in Italia cantò Marisa Sannia con il titolo ‘Se qualcuno si innamorerà di me’ – NdA)”. Qui iniziarono le sue ‘barricate’, tra musica e arte, che, a quanto pare, non ha ancora abbandonato. Ed è proprio da Parigi che da circa quarant’anni diffonde nel mondo il suo tango tinto di nero mescolato a jazz, classica, latinrock e canzone d’autore. Una cavalcata inaugurata all’inizio del Settanta con il debutto sulla scena internazionale del suo primo gruppo
Malon. “Suonavamo un misto di latinjazz, sonorità alla Carlos Santana con accenti argentini di candombe e milonga, ed effettuammo varie tournée in Europa”. E all’insegna del Malon anche l’esordio discografico eponimo che venne distribuito dalla Philips a livello mondiale.
Fin qui il termine
malon ha fatto capolino più volte, come una sorta di faro che illumina la carriera e la poetica del nostro artista e una etichetta connessa alla sua immagine, e allora chiedo a Cáceres di spiegarcene meglio i significati. “Letteralmente significa incursione improvvisa, un attacco violento. Si riferisce alle azioni di ritorsione degli indios araucani contro il fortino degli invasori, dei colonizzatori. Su queste battaglie degli indios esiste un quadro famoso nel Museo di Buenos Aires e si chiama ‘La Vuelta del Malon’ (del pittore argentino Angel Della Valle – 1852/1903 – figlio di un costruttore italiano- NdA). Il nostro disco ‘El Malon’ rifletteva quello spirito e la situazione politico sociale dell’America Latina della fine anni Sessanta. Gli ideali di Che Guevara erano vivi nelle piazze. Un grido di ribellione per contestare quanto accadeva nel continente e nel mondo”.
Ma il ‘ritorno del malon’ (La Vuelta del Malon) dopo trentacinque anni, cosa rappresenta? “Vuole sottolineare che nonostante tutte le lotte, le aspettative, le promesse e il trascorrere degli anni, le cose non sono cambiate molto. Rimangono ancora ingiustizie, diritti negati”.
Insomma, un Cáceres sanguigno, vitale, ancora con la rabbia del passato, pronto a battagliare con la forza del canto e della musica per rinnovare vecchi temi e ridare luce a storie nascoste. Di lui si dice che sia un ribelle, un cacique, e quindi gli chiedo chi sono i rivoluzionari in cui ha creduto.
“Io non sparo, io mi ribello in modo anarchico, libertario. A me piacevano grandi personaggi dell’anarchismo come Malatesta, Di Giovanni, Sacco e Vanzetti”.
Cáceres va controcorrente, un utile bastian contrario, da sempre non ama l’ortodossia, è un personaggio eclettico, di profonda ricerca artistica e culturale. E’ un instancabile investigatore delle radici musicali africane e del suo Paese. Come etnomusicologo, infatti, ha battuto strade inconsuete per rileggere e riscoprire le radici nere del tango che la storia ha in parte dimenticato. In linea con il famoso critico cubano Alejo Carpentier – che scriveva che i negri sono i principali responsabili della diffusione del tango – Cáceres sostiene che milonga e tango sono africani, vengono dal tamburo, e sono moderni. “Se non fossero esistiti i negri non ci sarebbe il tango – dichiara Juan Carlos – che possiamo considerare la prima musica di fusione, una musica de Ida e Vuelta, di andata e ritorno. Si cominciò ad impastare candombe con le musiche degli italiani e degli ebrei che arrivarono dall’Europa centrale, con il rubato, ecc. Un’ amalgama di suoni – analoga a quanto successo tra ragtime e jazz – , una musica con un processo evolutivo continuo, dove ogni decade si registrava un cambiamento, si rinnovava, e così ebbe origine il tango moderno degli anni Venti, quello del Trenta ecc. eppoi il tango nuevo, il tango elettronico. Ma riprendendo il discorso iniziale, per capire il binomio negri-tango bisogna partire da una storia negata. In principio – ovvero molto prima che apparisse il bandoneón e il tango odierno – questa era la musica degli schiavi di Buenos Aires e Montevideo; si suonava con tamburi e strumenti a fiato, su ritmo binario e molto veloce. Cinquant’anni dopo l’arrivo del bandoneon tedesco – che gli italiani preferirono alla fisarmonica – il tango cominciò ad europeizzarsi, a sbiancarsi, diventando più lento e sofisticato. Tuttavia fino al 1940 alcune orchestre di tango avevano la sezione ritmica di candomberos”. Cioè?“Tamburi di origine africana, simili alla tumbadora, impiegati nel candombe, una pratica che fa parte di rituali afroamericani. Da noi si conosce come candombe, in Brasile è candomblé, a Cuba santería, ma sono più o meno simili. Mentre a Montevideo è ancora molto vivo, grazie a una comunità nera consistente, a Buenos Aires il candombe è raro sentirlo perchè si è atrofizzato: i neri sparirono presto”.
Ma prima di parlare dell’estinzione degli afroargentini, stiamo ancora un attimo su tango e ritmo. Se con i neri scomparvero i tamburi, chiedo al Maestro Cáceres, chi pensava a mettere la ritmica nel tango? ”L’assenza di percussionisti costrinse a trovare la ritmica dentro gli strumenti armonici. Per molti anni la parte della percussione la faceva il contrabbasso, il violino o altri strumenti. Era un lavoro di compensazione, per fortuna ultimamente ci sono giovani che cercano di riappropriarsi del passato e occuparsi delle percussioni”. E mentre i giovani, stimolati anche dall’esempio del Malon – Cáceres, cercano di riabilitare tracce del tango antico, quest’espressione si rinnova ma sempre guardando ai protagonisti più importanti, tra i quali Horacio Salgan, Osvaldo Pugliese, Anibal Troilo, che sono i preferiti di Cáceres.
Poco sopra, parlando di candombe, si è fatto un rapido cenno alla sparizione, o quasi, della popolazione nera da Buenos Aires, argomento sul quale chiedo a Cáceres di tornare con un breve riassunto. “Da un censimento recente risultano 3000 neri e più di 2 milioni di afrodiscendenti, e tra questi c’è un forte meticciamento dove in mezzo c’è di tutto. L’ Enciclopedia Universale Britannica scrive che a Buenos Aires nel 1880 più del 45 per cento della popolazione era nera. Poi con l’arrivo di italiani, spagnoli, ebrei dell’Europa centrale tutto è cambiato. Ovvero la società si è gradualmente sbiancata”.
Sbiancata sì, ma, secondo questi dati, una piccola comunità afroargentina esiste e resiste, e infatti c’è la Fondazione Africa Vive – la stessa organizzazione argentina promotrice del censimento – che opera per riscattare i valori della comunità nera e sostiene le persone discendenti dagli schiavi africani impegnate a sconfiggere il pregiudizio abbastanza diffuso che li vorrebbe inesistenti in questo Paese sudamericano, che ne aveva rimosso il ricordo, assieme anche alle tracce nere del tango. Quelle tracce che sono riapparse grazie anche al lavoro costante, controcorrente e su più fronti di Juan Carlos Cáceres, paladino della negritudine del tango e delle tradizioni rioplatensi, storico ed etnomusicologo, ma anche professore di storia dell’arte e pittore.
“L’arte mi accompagna da sempre – dice Cáceres – dai tempi di Buenos Aires dove frequentai l’Accademia studiando pittura per 7 anni; di giorno mi dedicavo all’arte mentre di sera mi guadagnavo da vivere con la musica. Poi ho continuato a Parigi alternandomi tra le due espressioni, musica e pittura, che si alimentano a vicenda. Ora però non ho più tempo per l’insegnamento perchè sono spesso in viaggio per concerti”.
E ci avviamo verso la conclusione con alcune domande a ruota libera.
Maestro, lei è della stessa generazione di un altro grande musicista argentino: Gato Barbieri. Non avete mai incrociato le vostre musiche?“Con Gato Barbieri ho suonato qualche volta nei club in Argentina, prima che lui diventasse famoso. C’era in programma un progetto della casa discografica che prevedeva un incontro a tre: io, Gato e Santana, ma non si realizzò”.
In breve, esperienze di musica salsa, musica latina, viaggi a Cuba?
“La salsa mi piace ma non la pratico. In gioventù ho fatto tantissimo latinrock mischiato a milonga. Ora i miei stili preferiti sono tango, jazz e classica, e per il resto ci rimane poco tempo. Ah, Cuba? Sono stato nell’Isla invitato a un festival del Tango circa 20 anni fa. Lì esiste la tradizione classica per l’impatto che hanno lasciato Carlos Gardel o i cantanti in voga negli anni Quaranta. Ho conosciuto vecchi cantanti cubani che interpretano alla maniera di Gardel. E’ il tango classico, quello ha prestigio in tutta l’America Latina, da Cuba, Messico alla Colombia, musica che ha a che vedere un poco con il passato, con la nostalgia, perfino con il prestigio dell’Argentina, come Maradona per esempio”.
Le piace bere?“Sì, whisky; e poi vino, tra i preferiti, vini italiani, spagnoli e francesi”.
Dimenticavo. Quali sono le sue origini? “Dal lato paterno sono creole, mentre da lato materno sono italiane e precisamente di Potenza. Da lì partirono i nonni nel 1890 alla volta dell’Argentina”.
Quindi, un po’ di sangue italiano nelle vene. E ci sono musicisti italiani che conosce e apprezza?
“Mi interessa ovviamente Paolo Conte e andando indietro nel tempo mi piacevano molto Domenico Modugno e Adriano Celentano”.
Cosa le resta ancora da fare a cui tiene in modo particolare?“Comporre, dipingere e vivere tranquillo. Mi piacerebbe stare in mezzo ad un mondo meno stupido, più tranquillità politica e spirituale, con gente meno ignorante”.
E quali sono i progetti futuri in campo musicale? “Sto realizzando una compilation-inventario di 40 anni di attività. Ci sono molti brani inediti, incisioni live in Italia, Olanda, Canadà e uscirà nel corso di quest’anno”.
Maestro Cáceres, suerte y mucha salud!
Gian Franco Grilli
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