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Lei è newyorchese, di origini portoricane, ma con un cognome italiano. Può
svelarci le sue radici?
I miei genitori sono di Ponce (Puerto Rico), ma le mie antiche origini sono
fiorentine. In breve la vicenda è questa: attorno al 1860 due fratelli
toscani (uno era mio bisnonno) partirono alla volta di Puerto Rico e qui nel
1873 divennero proprietari di Amelia, un bel podere agricolo, dove nacquero
mio nonno Domingo e mio padre Carlos Manuel Palmieri, che emigrarono poi
negli Stati Uniti.
Veniamo alla sua infanzia, all’ambiente sociale e musicale di New York.
Cosa ricorda di quegli anni?
Sono nato il 15 dicembre del 1936. Mia madre era sarta, mio padre
radiotecnico. Quando avevo cinque anni la mia famiglia si trasferì nel
Bronx, dove sono cresciuto assieme a mio fratello Charlie, che aveva nove
anni più di me e suonava già il pianoforte. A undici ho iniziato a suonarlo
anch’io e a tredici mi cimentai anche con le percussioni, suonando per un
po’ i timbales con El Chino y su Alma Tropical, un’orchestra diretta
da mio zio Chino Gueits, chitarrista. Non ho fatto studi accademici, bensì
alla scuola di Margaret Burns, una nota concertista. Ma più importante è
stata la pratica con i gruppi musicali del barrio, dove si suonava
blues, jazz e la musica afrocubana che andava per la maggiore in quegli
anni.
Quali pianisti jazz l’hanno influenzata di più?
Innanzitutto mio fratello Charlie. Poi grandi nomi come Tatum, Monk, Bill
Evans; quelli delle grandi orchestre come Ellington e Basie. E poi McCoy
Tyner, con il quale ho suonato diverse volte a New York, in occasione di
Salsa Meets Jazz, concerti che si tenevano il lunedì sera e dove ho
suonato anche con un’altra leggenda del jazz: Billy Taylor.
E il punto di riferimento tra i pianisti delle band di musica afrocubana,
quelli che posero le basi dell’odierno latin jazz?
René Hernandez, che suonava con Frank Grillo Machito (uno dei pioneri a New
York del jazz latino) e arrivò da Cuba subito dopo la fine della seconda
guerra mondiale. René era non solo pianista, ma fu anche uno degli
arrangiatori più importanti di quell’epoca e collaborò con le big band di
Tito Rodríguez, Vicentico Valdés e altre.
Mi incuriosisce questa predilezione per i cubani e non per i portoricani.
Può parlarci di quel mondo musicale che furoreggiava negli USA tra gli anni
Quaranta e Cinquanta.
Puerto Rico ha la bomba, la plena e altri ritmi folklorici
bellissimi. Ma le forme ballabili e inebrianti che andavano di moda a New
York, fin dagli anni Trenta, venivano da Cuba: dapprima rumba, conga, son
montuno e poi mambo e cha cha chà. E i musicisti cubani erano
molto corteggiati anche dal jazz. Comunque la musica che più mi ispirava era
quella cubana, e lo stesso è successo a tanti altri latini. Poi i
portoricani, i più numerosi della comunità latina di New York, carpirono i
segreti della musica cubana e allora…
E cosa ricorda del percussionista cubano Chano Pozo, che africanizzò
ulteriormente il jazz con i ritmi cubani suonati sulla tumbadora?
Ricordo poco di quel 3 dicembre 1948 quando l’assassinarono ad Harlem,
perché avevo solo dodici anni. Invece della sua rivoluzione ritmica, che
determinò la nascita del cubop o Afrocuban jazz, seppi molto
dall’amico fraterno di Chano, ovvero Miguelito Valdés,
cantante-percussionista che suonava con mio fratello. E anche Miguelito,
chiamato anche Mr. Babalù e portato alla ribalta da Xavier Cugat, era dotato
di un senso ritmico straordinario.
A proposito di Cugat: non è esagerato considerarlo un ambasciatore della
rumba cubana (e a volte anche jazzista)?
Condivido le perplessità. Si trattava di roba prettamente commerciale, che
aveva poco a che fare con la musica autentica cubana e ancor meno con il
jazz. Xavier Cugat è stato uno straordinario commerciante di musica esotica,
comunque ha contributo alla diffusione nel mondo di quella latina.
All’inizio degli anni Sessanta, mentre la musica latina era in crisi,
arrivarono le travolgenti onde sonore di Beatles e Rolling Stones. Il
giovane Eddie non ha avuto tentazioni?
In quegli anni io avevo già la mia orchestra, La Perfecta, e credevo nel mio
progetto. I Beatles li ascoltavo perché compravo i dischi per i miei
bambini, ma non ho avuto dubbi sulle mie scelte.
E nemmeno il latin rock di Carlos Santana l’ha stimolata … In fondo è un
sound più simile al suo linguaggio e che ha aiutato la musica latina, no?
Certamente, in quel senso ha dato un ottimo contributo. Con il latin rock
mi confrontavo solo quando Carlos veniva a New York e si facevano jam
session. Ricordi e musica bellissimi: c’erano anche il suo conguero
Armando Peraza e l’indimenticabile timbalero Tito Puente.
Visto che ha citato Tito Puente parliamo anche di salsa, un’etichetta
affibbiata impropriamente sia al re del timbal sia ad altri. Cosa significa
esattamente, e che origini ha questo fenomeno che lei ha visto da vicino?
Tito Puente diceva che conosceva solo la salsa che metteva sugli spaghetti,
quindi…
La parola salsa non mi appartiene e mi piace di più la musica latina
con i vari ritmi che la rappresentano. Se poi combiniamo queste poliritmie,
il discorso cambia e si fa interessante.
Questo termine, salsa, è stato purtroppo usato per un ritmo che
nasceva a New York e molti si trovarono, loro malgrado, dentro il mondo
della salsa. Un sound, oltretutto, che non aveva la tensione e la carica
giusta, qualità che invece possiede la musica afrocaraibica.
Quindi lei rimpiange i tempi d’oro della musica cubana…
Io sono enormemente attratto dalla musica caraibica, tutta. Ma credo che
vada rispettata nella sua essenza. Per esempio ci sono generi che mi
piacciono moltissimo come il merengue di Santo Domingo, plena e bomba
di Puerto Rico; son, rumba, guaracha di Cuba, ecc. Ognuno di
questi ha uno specifico ciclo ritmico che va rispettato, e non si può
combinare tutto assieme facendo scomparire la sostanza autentica. Così
nessuno sa poi riconoscere son montuno, cha cha chà. guajira, guaguancó.
Furono anni molto deboli per la musica latina: se la salsa ebbe successo
fino a metà del Settanta, lo si deve in particolare alla grande spinta
promozionale della casa discografica Fania. Ora mi sembra che le cose stiano
cambiando, con una musica più ballabile, più attraente e coinvolgente.
Le sue radici culturali sono più vicine alla bomba portoricana e meno
alla rumba, che è cubana. E allora perché la chiamano il rumbero
del piano e non bombero…?
Bella domanda (ride). Credo che rumbero del pianoforte venga dal mio
modo di suonare il montuno – una forma sperimentata nelle mie varie
orchestre di musica latina da ballo – e dal rispetto e dallo stretto
rapporto che ho con i percussionisti. Altri mi definiscono il Mozart del
montuno riferendosi, credo, al mio lavoro sulle variazioni e alle
estensioni delle mie composizioni, ma sono congetture…
All’inizio del suo percorso nel latin jazz inserì nella sua orchestra due
tromboni con sonorità rauche e aggressive. Il motivo?
Cominciai nel mondo del latin jazz con differenti orchestre. Per la
verità volevo nella mia band una sezione di trombe, ma era difficile trovare
trombettisti e il son montuno si faceva con la tromba. Decisi di
ripiegare sui tromboni: il primo fu Barry Rogers e poi arrivò José Rodrigues,
un brasiliano che stava a Santo Domingo. Furono i migliori trombonisti che
ho avuto in assoluto: purtroppo sono scomparsi.
Ma quei tromboni erano duri, dirompenti per la musica latina. Una scelta
estetica o voleva comunicare la rabbia dei latini del Bronx, preparando così
il terreno al giovane Willie Colón.
Erano tempi di rivoluzioni sociali e musicali a New York, c’era molto
fermento in tutti i sensi e io registrai dischi come Justicia, Libertad
cercando di parlare delle cose importanti. Willie Colón, forse, venne
influenzato anche dalla mia La Perfecta, e il suo trombone esprimeva il
disagio suonando note di protesta, ribelli.
E una nuova generazione di ribelli da pochi anni aveva trionfato a Cuba,
il Paese che l’attrae musicalmente più di tutti, ma che non ha ancora
visitato. E’ vero?
Sì, non ci sono mai stato. Nel 1959, pochi mesi dopo la rivoluzione, ero a
Miami con la band di Tito Rodriguez e stavo proprio progettando di andarci.
Poi ci pensai un po’ troppo, e non ho più avuto l’opportunità. Mi piacerebbe
conoscere meglio quell’isola. Comunque mi sono sempre tenuto aggiornato su
quello che succede a Cuba, soprattutto in campo musicale e sulle strutture
della musica ballabile. Questo grazie ai tanti cubani che conosco e che
hanno suonato con me. In questo momento nel mio gruppo c’è l’ottimo
sassofonista Yosvany Terry Cabrera, che risiede a New York.
Ma con lui, come con altri cubani, si parla solo di musica o anche della
realtà quotidiana dell’isola ribelle che fa discutere da circa
cinquant’anni?
No, parliamo anche di società, delle difficoltà che la gente vive, ma
principalmente di musica. Inoltre la mia opinione è che la forma di governo
di un Paese non deve mischiarsi con la musica e che, in definitiva, i
problemi sociali sono presenti in tutti i Paesi del mondo.
Qual è il brano preferito in mezzo a una produzione così vasta, e quale
album le ha dato la prima grande emozione?
Amo tutti i miei trentasette dischi. Ma se vuoi che te ne citi uno in
particolare, dico Azúcar che registrai nel 1965. A quell’epoca i brani
dovevano essere di 2 minuti e 45 secondi e invece quel brano ci appassionò
tanto che durò 8 minuti e 30, e da quel momento in poi cambiò il modo di
registrare la musica latina. L’emozione più grande fu nel 1975, quando vinsi
il mio primo Grammy con “The sun of latin music”. Finora ho
collezionato nove Grammy, l’ultimo nel 2007 con “The Brian Lynch/Eddie
Palmieri Project- Simpatico” (ArtistShare 2006) – come miglior album di
latin jazz – un bel progetto di collaborazione con Brian Lynch e che
annovera tra gli altri artisti come Phil Woods, Conrad Herwig, Robby Ameen e
Giovanni Hidalgo.
Visto che il suo lavoro musicale è sempre stato in bilico tra pre-salsa,
musica latina e jazz, questo Grammy – condiviso con il trombettista
dell’Illinois – premia l’ottimo “Simpatico” ma anche questa sua lunga fase
dedicata prettamente al jazz…
Per alcuni aspetti sì, ma da sempre sperimento il mio sentire latino con il
jazz . “Simpatico” è un misto di bop e ritmi afrocaraibici, e tra i
brani anche Jazzúcar, che è una nuova versione di Azúcar. In
questa fase ho registrato anche “Listen Here” (Concord), e per
celebrare mezzo secolo di musica, oltre ai miei stretti collaboratori, ho
chiamato strumentisti straordinari, tra cui John Scofield, Donald Harrison,
Michael Brecker , "El Negro" Hernandez, Nicholas Payton.
Foto: M.T. Salomoni
Gian Franco Grilli
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