Los Papines: Eternamente Rumberos

Papines: eternamente rumberos
Dopo quarant’anni, anche una donna tra gli “ambasciatori” della percussione afrocubana. Di recente il gruppo ha suonato alla Rumba di Milano.
Nell’occasione ho avvicinato Jesús Abreu, portavoce e timbalero dell’orchestra, dopo molti anni dal nostro primo incontro. E mi è sembrato un buon pretesto per proporre a Salsa.it un profilo storico, l’intervista e brevi note sul concerto del quintetto Los Papines.

di Gian Franco Grilli

Una rumba che corre da mezzo secolo ed è ancora lontana dal capolinea. E’ quella proposta dal gruppo cubano Los Papines, grandi maestri della percussione afrocubana. Ambasciatori della rumba, hanno fatto tournèe in quattro continenti e condiviso il palcoscenico con grandi artisti come Tito Puente, Mongo Santamaria, Omara Portuondo, Ruben Gonzalez.

Profilo storico.
Il viaggio musicale dei Papines partì dall’Avana nel 1963, quando quattro fratelli della famiglia Abreu decisero di entrare sulla scena internazionale proponendo rumba autentica e solo con strumenti naturali come voce, claves e tumbadoras. Un’idea ambiziosa che da un lato voleva far conoscere le verità della rumba, in quanto sotto tale nome si commercializzava indistintamente la musica latina, mentre dall’altro lato c’era la voglia di riportare in auge la musica cubana, caduta nell’oblio dopo il boom di mambo e cha cha cha.

Il progetto di musica popolare all’insegna del folklore afrocubano, decolla lo stesso anno in cui a Cuba si spegneva la stella di Benny Moré (uno dei miti musicali di ieri e di oggi) e in Europa i riflettori erano accesi sui quattro ragazzi di Liverpool che di lì a poco faranno impazzire i giovani di tutto il mondo con il rock di chitarre e batteria: i Beatles. Questo, in estrema sintesi, il contesto musicale internazionale in cui i quattro giovani cubani, coetanei di John Lennon & Co., scelgono la via della musica tradizionale. Una scelta controcorrente per quel tempo ma rivelatasi vincente nel tempo e duratura.
Una buona parte del successo e dello stile dei Papines sta nella coreografia che accompagna il travolgente intreccio poliritmico. Mentre suonano tumbadoras, timbales, chequerè e claves, sviluppano uno spettacolo visivo che unisce danza, pantomima e voci. Una performance divertente che coinvolge attivamente il pubblico.
Punti di forza del gruppo sono unione, stabilità e orgoglio e, oggi, nel momento in cui molte orchestre cubane si sciolgono come neve al sole per fondare nuove formazioni, los Papines rimpolpano il nucleo storico con nuove figure di ‘produzione famigliare’.
“La nostra famiglia, che la rumba ce l’ha nel Dna, è sempre stata presente nel nostro progetto artistico – dice Jesús, portavoce e timbalero del gruppo – e il nostro successo lo dobbiamo anche allo stimolo dei nostri genitori e alla collaborazione di tutti . Oltre a noi uomini ci sono sette sorelle. Anch’esse rumbere, cantano in cori ecc., hanno una loro vita, ma ci si confronta e condividiamo le passioni. E non è retorico dire che dietro le quinte dello spettacolo de los Papines c’è il contributo di sorelle, figli e cugini, che giudicano, criticano e sostengono i cinque che vanno in scena.“ Cioè chi?
“Ricardo ‘Papín’, Luis e Jesús, ovvero la prima generazione, e poi Yulieta Abreu Fernandez, Luis Abreu Chantres, rispettivamente figli di Jesùs e Luis, che sono il futuro. E per la prima volta c’è una donna nel gruppo.”
 

 
     

L’intervista.
Il cronista ha avuto il piacere di organizzare concerti con questo gruppo un quarto di secolo fa, nel 1982, quando in Italia parlare di musica cubana significava evocare un sacco di stereotipi fuori luogo e sentire stramberie d’ogni tipo.

Un paio di settimane fa il gruppo è riapparso al club milanese La Rumba, mai nome fu più adatto per talenti del sound afrocubano!
Prima del concerto li ho avvicinati per l’intervista. E per me l’inizio è stato imbarazzante e delicato perché non potevo evitare di ricordare la mancanza di Alfredo, fondatore del gruppo, strepitoso percussionista e ballerino.
“Avevamo appena terminato un tour in Europa – dice Jesús – quando il 28 ottobre 2001 Alfredo è deceduto. Una malattia che si è riacutizzata improvvisamente. Le settimane successive sono state durissime per tutta la nostra famiglia.”
Allora, cominciamo l’intervista dai vostri due cognomi perché per un po’ di tempo ho pensato che Yaroldy Abreu, percussionista di Chucho Valdès, fosse della ‘dinastia’ Papines. E invece così non è.

Per prima cosa voglio dirti che nella zona di Santa Clara ci sono molti Abreu, ma il nostro ceppo viene da Pinar del Rio, tutt’altra regione. Il nostro cognome completo è Abreu Hernandez e confermo che il giovane e bravo Yaroldy non è parente nostro.
Abreu all’anagrafe, Papines in arte. Da dove questo nome?
Tutto parte con Ricardo, mio fratello maggiore, che da piccolo cantava, fischiava e ballava moltissimo: la gente incominciò a chiamarlo Papín. Un soprannome, un modo affettuoso che si usa rivolgendo la parola a qualcuno e siccome si trattava di un bambino…papín. Quando iniziò la storia del quartetto un nostro amico ballerino, già scomparso, ci suggerì il nome Los Papines e così…
Descrivimi il luogo della vostra infanzia.
Siamo cresciuti nel municipio avanero di Marianao, e per la precisione nel quartiere Los Pocitos, dove spesso veniva anche Chano Pozo. E’ lì che si inventò il tres golpes la tumbadora che suona mio fratello Luis e che ritma assieme agli altri due tamburi, la conga e il quinto(NdA: il solista che improvvisa).
La rumba è una eredità familiare, l’avete appresa nella strada o da studi in accademie musicali?
Siccome il nostro è un quartiere tipico di rumberos, Ricardo da ragazzino era sempre in mezzo alla rumba, suonava con altri giovani e quest’arte entrava in casa contagiandoti. Qui nacque il primo gruppo di mio fratello:Papín y sus rumberos. Erano i primi anni ’50 e qualche anno dopo io, Luis e Alfredo ci unimmo a Ricardo ‘Papín’.
In quale contesto?
Papín era il direttore dei percussionisti del cabaret Tropicana e così gradualmente ci introdusse in situazioni diverse dentro questo megashow. Ma i primi passi organizzati come gruppo Los Papines risalgono al 1963, suonando al Casino Parisien nell’Hotel Nacional dell’Avana. E da lì il lancio ufficiale.
Un passo indietro. Ti ricordi l’ambiente musicale della capitale cubana all’inizio del ’50?
Beh, tieni conto che sono nato nel 1945, ma già all’età di 8-9 anni ricordo che ascoltavo Benny Moré, Barbarito Diez, Abelardo Barroso ecc.
Ma delle jazzband americane o cubane, di cubop…
Forse Papín e Alfredo, sapevano…. Per stare in tema, posso dirti invece che all’inizio del ‘60, assistevo alle jam session dove c’erano i trombettisti Leonardo Timor, Luis Escalante (professore di Arturo Sandoval), il trombonista Pucho Escalante, ecc. Ottimi jazzisti coi quali abbiamo suonato poi nel Casino Parisien.
Parliamo della forma rumba, degli approcci iniziali e con quali strumenti, secondo la vostra esperienza.
Noi cominciammo con una tumbadora, un quinto, un tres golpe e una cajita. In seguito, per aumentare le possibilità ritmiche, abbiamo raddoppiato questi tamburi e la cajita chiquitica che si suonava con due cucchiai è diventata una grande cajita musicale, con l’inserimento di campane, tom tom. Un set sonoro ideato da Luis, che oggi funziona ancora.
Diana, narrazione, decima, claves, canto, ritmo, tres golpes, ecc. si legge che sono gli ingredienti della rumba. Ma in questo mondo complesso chi è il vero Re?
Per il rumbero è la clave. Ogni cantante ballerino o musicista di rumba deve sapere che la base di tutto sta nella metrica della clave, che è fondamentale anche per tutta la musica cubana. Ma prima di tutto serve el corazón. Tu me entiendes?
Claro que sì!. Andiamo avanti: si dice che Matanzas e La Habana sono i depositari della rumba. Cosa ne pensi?
Io invece credo che tutta Cuba è rumbera, ma succede che c’è chi la suona come quelli dell’Avana e altri nel modo di Matanzas. Lo stesso accade per la conga: c’è quella santiaguera e l’avanera.

 
     

Il ballo che ruolo ha nel vostro show rumbero?
E’ molto importante, soprattutto quando vai all’estero. Il ballo, le parti sonore e visive ci hanno permesso di comunicare meglio, superando le barriere della lingua. Sappiamo ballare e mescoliamo tutto, canto, danza, satira.
Ho visto che avete abbandonato le storiche tumbadoras disegnate.
Le tumbadoras che abbiamo oggi (NdA: Latin Percussion) sono conseguenti alla perdita di strumenti e vestiti nella città spagnola di Valladolid, nel 1996, durante il tour mondiale con il Tropicana.
Ma le congas ‘storiche’, queste (e gli mostro una vecchia foto dove anch’io sono ritratto) chi ve le costruiva?
Ah! Le faceva un artigiano cubano di nome Joseito. E il disegno, che vedi nella foto, venne realizzato nel 1963 in Unione Sovietica.
Facciamo un tuffo nel passato: Bologna, dicembre 1982. Alcune vostre dimostrazioni al Motorshow e l’indimenticabile (almeno per me) concerto alla Sala Bossi del Conservatorio di Bologna. Però prima del 1982 eravate già venuti in Italia?
Forse alcuni anni prima a un Festival dell’Unità; invece ricordo con piacere l’evento in quella cornice classica del Conservatorio. Ma, concerti a parte, le foto che mostri mi fanno sentire quel clima solidale che incontrammo, come essere a casa nostra.
Tournèe nel mondo intero, ma in quali paesi non avete ancora suonato?
Sono una settantina le nazioni visitate, sparse in quattro continenti. Quello che ci manca è l’Oceania.
Se non ricordo male, voi siete il primo gruppo cubano che ha suonato negli Usa dopo la rivoluzione. Puoi dirmi quando, in quale città e l’occasione?
Sì, fu nel 1977. Abbiamo una targa ricordo che dice “los primeros artistas cubanos en romper el bloqueo musical”. Si trattò di un evento organizzato dalla Brigata del lavoro volontario Venceremos, composta da statunitensi che erano venuti a Cuba. Una volta rientrati nel loro paese, i ragazzi fecero di tutto per ottenere i vari permessi e così si realizzò questo magnifico incontro a New York.
E in quella stessa città, ad Harlem, nel 1948 incontrò la morte il rumbero mayor Chano Pozo Gonzalez, artefice principale della fusione tra ritmi afrocubani e jazz. Una rivoluzione musicale che aprì la strada ad altri tamboreri che emigrarono nel Nord America. Ti vengono in mente un paio di nomi, cubani o non, con i quali avete suonato?
Mongo Santamaria, ad esempio. Un conguero che fece cose importanti nel mondo della musica. Incise molti dischi e una sua caratteristica, che ritengo importante, è questa: l’orchestra accompagnava la tumbadora e non il contrario! E poi il fantastico Tito Puente, di origini portoricane.
Il sincretismo religioso è una realtà molto presente a Cuba. Siete santeri, aderite a qualcuna di queste religioni?
Noi siamo abakuà.

Ah, la stessa setta di Chano Pozo, secondo la dichiarazione di Yoya, una delle sue amanti. Ma se questo è argomento controverso, è certo invece che gli abakuas, o ñañigos, all’inizio rappresentarono un fenomeno sociale, prima che liturgico, importante per l’identità del cubano e nella lotta allo schiavismo. Me ne parli ?
Sì, quello che hai detto è esatto. La nostra è una società di mutuo soccorso, con caratteristiche uniche: solo uomini possono aderire al gruppo Abakuà, nelle nostre riunioni non possono partecipare donne. Stiamo parlando di una realtà che ha origini africane e che, a Cuba, si è rimodellata con regole da rispettare: ad esempio, non possono entrare donne, ma neanche uomini, se non aderenti a questa religione ecc. C’è rigore.
Sarebbe interessante approfondire ma… In modo stringato: cos’è un abakuà e quali animali sono sacrificati durante il rito?
Abakuà è una persona con grande dignità, allegra, forte, un buon padre, un buon fratello e un vero amico che condivide con gli altri le cose. Nel rituale sacrifichiamo galli.
Sul palcoscenico non vedo nessun tambor batà, che ha notevoli possibilità timbriche, come mai?
In passato abbiamo fatto spettacoli con batà. Nel 1969, in Giappone, avevamo in repertorio brani di piano e batà, uno spettacolo con Omara Portuondo e Joseito Gonzales (pianista famoso di Rumbavana) e con la collaborazione di specialisti come Trinidad Torregrosa, Jesus Perez. Siccome erano pochi pezzi di questo stile si è deciso che non valeva la pena di movimentare tanta strumentazione e avere maggiori costi.
La rumba soy yo è l’album che ha ottenuto il Grammy nel 2001 e voi fate parte del progetto. Avete partecipato alla premiazione?
Ci andò mio fratello Ricardo con una delegazione, poi sorsero problemi a causa delle Torri Gemelle dell’11 settembre e dovettero rientrare. Il premio venne inviato poi a Cuba.
Parlami della vostra discografia principale, l’ultimo disco e il prossimo.
Abbiamo un buon numero di dischi, non li ricordo tutti. Recentemente è uscito “Los Papines siguen Ok” (Egrem). Tra poco faremo un documentario, da lì un dvd e poi un cd con artisti importanti coi quali abbiamo lavorato negli anni: Omara Portuondo, Joselito Gonzalez, Cachao, Ruben Gonzales, Lazaro Ros, Celeste Mendoza. Mercedita Valdés. E il titolo del nuovo cd sarà “Los Papines presentan, che verrà allegato al dvd.
Tanti anni di lavoro assieme. Qual è il segreto?
Siamo 11 figli, ora 10. L’esempio dei nostri genitori è stato fondamentale, una bella e forte unione, ma soprattutto di qualità.
Alcune domande ai nuovi Papines. Julieta, tu sei giovane e come tale potresti guardare oltre. Cos’è che ti lega alla rumba
Per me è la base di tutto. Quando uno conosce rumba e claves può fare molte altre cose. Io ritengo che la rumba è il cuore, un classico della musica cubana
Prima tuo padre ha parlato che sei docente.
Sì, docente di musica nella Scuola Amadeo Roldán e all’ISA, Istituto Superiore d’Arte. Io insegno percussione classica ma non afro! Io la tradizione afrocubana la imparo per via familiare, è ereditaria. Ma gli studi fatti sono classici.
Ma perché avviene questo?
Io credo che sia perché il ritmo cubano, la tumbadora, il lato afro li abbiamo nel sangue e allora siamo indirizzati a insegnare qualcosa che i cubani non hanno principalmente nella loro cultura, come la musica classica. Credo, forse, che il ragionamento più o meno sia questo.
Rimango sbalordito, ho le idee confuse, perché se così stanno le cose, ma non ne sono certo, temo che qualcosa nella rivoluzione cubana si sia inceppato. E allora, sempre se così è, ci sarebbe ancora molto da fare per aprire le porte, una volta per tutte, alla musica nera, mulatta o di altro colore. E pensare che nel nostro piccolo, nel 1982, in un tempio classico come il conservatorio di Bologna, portando guaguancò, yambù, columbia, e tanta strumentazione di lontana origine africana, credevamo di aver dato un modestocontributo per superare steccati obsoleti. Spero non sia solo una illusione. Ma, approfondirò la questione.

Il concerto in breve e l’opinione.
Spettacolo divertente e carico di energia come sempre, ritmi incalzanti sui quali Papín si appoggia per tessere virtuosismi di prima grandezza con il quinto, una sorta di tamburo parlante che dialoga e guida i protagonisti della rumba. Coinvolgente al massimo quando appassionati di danza vengono invitati sul palco a ballare a ritmo di guaguancó, mimando il gioco erotico di attrazione e repulsione: è il vacunao. Il punto di incontro tra eros e danza. Il concerto concede poi qualche escursione ritmico-melodica nel mondo della salsa, quando le tastiere accennano il giro armonico del son e allora la rumba flirta con guaracha, cha cha cha, bolero. Poi si entra direttamente in una conga callejera (di strada), che per l’occasione si accontenta di sfilare tra i tavoli del locale.
Per concludere esprimo la mia opinione. La scenografia e l’energia degli hermanos Abreu, quella del 1982 e o del 1988 con il Tropicana Show, si sono un po’ spente e questo, forse, è dovuto anche alla perdita della vitalità straripante che era caratteristica del compianto Alfredo. Ma è sempre un ottimo gruppo!
Tanto di cappello a chi è in grado di estrarre suoni magici dalle pelli dei tamburi, a chi sa ricreare il clima festoso e autentico della rumba in ogni angolo del pianeta.. E un vero riconoscimento va alla coerenza degli Abreu, che a tempo di rumba sanno resistere alle tentazioni commerciali.
Hasta siempre Papines, rumberos de ayer y de hoy!Canta!

Foto di M.T. Salomoni
Ringrazio – Roberto Rabbi, che ha assistito all’intervista.

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